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Sicilia contro Cosa Nostra: dal dominio di Corleone alle conseguenze di Capaci

Pensare genericamente alla “criminalità organizzata” rende difficile cogliere quanto a

fondo la Mafia abbia inciso sulla vita quotidiana siciliana. In alcuni paesi persino l’acqua

era un feudo privato: le famiglie la compravano da pozzi controllati dai clan. La Mafia

seppe adattarsi con abilità allo stato sociale moderno: corruzione e intimidazione le

permisero di infiltrarsi negli appalti pubblici, vincendo gare direttamente o drenando

denaro attraverso subappaltatori e società di comodo. Il modello si diffuse in tutto il

Mezzogiorno, radicandosi nei bisogni quotidiani e nella politica.


È dentro questo contesto che Salvatore “Totò” Riina emerse come capo dei capi di Cosa

Nostra. La sua ascesa non può essere separata da Corleone, divenuta il cuore del nuovo

ordine mafioso. Nel 1958 Luciano Leggio fece uccidere il rivale Michele Navarra e prese

il controllo della cosca locale. Da lì emersero Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca

Bagarella: il nucleo della fazione dei Corleonesi. All’inizio degli anni Ottanta lanciarono

la Seconda guerra di mafia, sterminando i boss storici di Palermo e imponendosi come

padroni indiscussi di Cosa Nostra. Corleone, da borgo agricolo dell’entroterra, si

trasformò così nel simbolo di una Mafia fondata su segretezza, sangue e centralizzazione

spietata.


Nel gennaio 1993 Riina fu finalmente arrestato dai Carabinieri dopo oltre vent’anni al

vertice di una delle più potenti organizzazioni criminali del mondo. Controllava rotte

della droga da miliardi di dollari, reti di riciclaggio internazionali e un vasto sistema di

estorsione. Già condannato in contumacia per 150 omicidi, stava scontando più

ergastoli. La sua cattura avvenne nel momento in cui l’Italia affrontava la crisi politica più

profonda dal secondo dopoguerra: la Guerra fredda era finita, il Partito comunista si era

sciolto e il sistema clientelare che aveva protetto a lungo la Mafia attraverso la

Democrazia Cristiana era crollato. Improvvisamente, i vecchi racket di protezione, le

tangenti e la compravendita di voti che avevano alimentato Cosa Nostra apparivano

sotto una luce cruda e diretta.


Lo Stato, però, aveva già cominciato a reagire. I giudici Giovanni Falcone e Paolo

Borsellino avevano promosso il Maxiprocesso (1986–1992), sostenuto da nuovi

strumenti: sequestri patrimoniali, programmi di protezione per i collaboratori di giustizia

e il regime carcerario duro del 41-bis. I loro omicidi nel 1992, Falcone sull’autostrada A29,

nei pressi di Capaci, e Borsellino in Via D’Amelio, sconvolsero l’intero Paese. La risposta

civile fu immediata: la borghesia palermitana scese in piazza, scuole e commercianti

organizzarono proteste, le parrocchie si mobilitarono e associazioni come Libera

promossero il riutilizzo sociale dei beni confiscati (Legge 109/1996), trasformando ville e

terreni in cooperative e progetti comunitari.


Cosa Nostra replicò con la strategia del terrore sul continente. Il 27 maggio 1993, all’una

e quattro di notte, un Fiat Fiorino imbottito con 277 chili di esplosivo esplose in via dei

Georgofili, alle spalle della Galleria degli Uffizi a Firenze. Cinque persone persero la vita,

mentre 173 dipinti e 56 sculture subirono danni gravi, insieme all’Accademia dei

Georgofili e al Museo di Santo Stefano al Ponte. Seguirono anni di restauri minuziosi,

mentre l’Italia prendeva coscienza della capacità della Mafia di colpire persino il cuore

culturale della nazione.


Nel frattempo, a Catania, la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta furono segnati

da un inferno parallelo: i clan rivali, Santapaola, Cappello, Cursoti, Laudani, scatenarono

una spirale di omicidi che arrivò a condizionare persino gli equilibri palermitani. Luoghi

di vita quotidiana si trasformarono in teatri di sangue: distributori lungo la Palermo–

Catania, barberie a Canalicchio, una macelleria in via Ferro Fabiani, persino il cimitero.

L’elenco delle vittime fu implacabile: Nello Colombrita nel 1989; “Nino” Pace, giustiziato

dal barbiere nel 1990; Angelo Barbera, capo dei Cursoti, nel 1991; fino agli omicidi del

1992 di Alfio Amato e Rosario Piacente. Anche innocenti furono colpiti: Maurizio

Colombrita fu assassinato mentre portava fiori sulla tomba del fratello. Quelle violenze

lasciarono ferite profonde, ancora oggi ricordate in tribunali, articoli di giornale e

cerimonie familiari.


L’operazione che portò alla cattura di Riina nel 1993 fu guidata da “Capitano Ultimo”,

nome di battaglia di Sergio De Caprio, allora ufficiale del ROS dei Carabinieri. Uscito

dall’Accademia militare Nunziatella, aveva prestato servizio a Bagheria e a Milano prima

di fondare l’unità sotto copertura “Crimor,” inviata a Palermo alla fine del 1992.

Quel trionfo, tuttavia, si trasformò presto in polemica. De Caprio e il generale Mario Mori

furono accusati di aver gestito in modo irregolare le indagini che avrebbero potuto

portare al covo di Riina; nel 2006 entrambi furono assolti con formula piena (“il fatto non

costituisce reato”). Negli anni successivi De Caprio ha servito in reparti ambientali e nei

servizi di intelligence, per poi fondare un’associazione a sostegno delle comunità più

vulnerabili. La sua figura è rimasta sospesa tra servizio decorato, controversie e impegno

politico, a dimostrazione di come la lotta alla Mafia si intrecci costantemente con le più

ampie vicende italiane di giustizia, potere e società.


Bibliografia

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10. Willan, P. (2002, August 18). ...while, in Sicily, the Mafia sells water. The

Observer.




Redatto da Caterina Di Liberto – Head, Italian Organized Crime Division 2025/2026

 
 
 

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Nelson Mandela

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