Sicilia contro Cosa Nostra: dal dominio di Corleone alle conseguenze di Capaci
- Caterina Di Liberto

- 21 set
- Tempo di lettura: 4 min
Pensare genericamente alla “criminalità organizzata” rende difficile cogliere quanto a
fondo la Mafia abbia inciso sulla vita quotidiana siciliana. In alcuni paesi persino l’acqua
era un feudo privato: le famiglie la compravano da pozzi controllati dai clan. La Mafia
seppe adattarsi con abilità allo stato sociale moderno: corruzione e intimidazione le
permisero di infiltrarsi negli appalti pubblici, vincendo gare direttamente o drenando
denaro attraverso subappaltatori e società di comodo. Il modello si diffuse in tutto il
Mezzogiorno, radicandosi nei bisogni quotidiani e nella politica.
È dentro questo contesto che Salvatore “Totò” Riina emerse come capo dei capi di Cosa
Nostra. La sua ascesa non può essere separata da Corleone, divenuta il cuore del nuovo
ordine mafioso. Nel 1958 Luciano Leggio fece uccidere il rivale Michele Navarra e prese
il controllo della cosca locale. Da lì emersero Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca
Bagarella: il nucleo della fazione dei Corleonesi. All’inizio degli anni Ottanta lanciarono
la Seconda guerra di mafia, sterminando i boss storici di Palermo e imponendosi come
padroni indiscussi di Cosa Nostra. Corleone, da borgo agricolo dell’entroterra, si
trasformò così nel simbolo di una Mafia fondata su segretezza, sangue e centralizzazione
spietata.
Nel gennaio 1993 Riina fu finalmente arrestato dai Carabinieri dopo oltre vent’anni al
vertice di una delle più potenti organizzazioni criminali del mondo. Controllava rotte
della droga da miliardi di dollari, reti di riciclaggio internazionali e un vasto sistema di
estorsione. Già condannato in contumacia per 150 omicidi, stava scontando più
ergastoli. La sua cattura avvenne nel momento in cui l’Italia affrontava la crisi politica più
profonda dal secondo dopoguerra: la Guerra fredda era finita, il Partito comunista si era
sciolto e il sistema clientelare che aveva protetto a lungo la Mafia attraverso la
Democrazia Cristiana era crollato. Improvvisamente, i vecchi racket di protezione, le
tangenti e la compravendita di voti che avevano alimentato Cosa Nostra apparivano
sotto una luce cruda e diretta.
Lo Stato, però, aveva già cominciato a reagire. I giudici Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino avevano promosso il Maxiprocesso (1986–1992), sostenuto da nuovi
strumenti: sequestri patrimoniali, programmi di protezione per i collaboratori di giustizia
e il regime carcerario duro del 41-bis. I loro omicidi nel 1992, Falcone sull’autostrada A29,
nei pressi di Capaci, e Borsellino in Via D’Amelio, sconvolsero l’intero Paese. La risposta
civile fu immediata: la borghesia palermitana scese in piazza, scuole e commercianti
organizzarono proteste, le parrocchie si mobilitarono e associazioni come Libera
promossero il riutilizzo sociale dei beni confiscati (Legge 109/1996), trasformando ville e
terreni in cooperative e progetti comunitari.
Cosa Nostra replicò con la strategia del terrore sul continente. Il 27 maggio 1993, all’una
e quattro di notte, un Fiat Fiorino imbottito con 277 chili di esplosivo esplose in via dei
Georgofili, alle spalle della Galleria degli Uffizi a Firenze. Cinque persone persero la vita,
mentre 173 dipinti e 56 sculture subirono danni gravi, insieme all’Accademia dei
Georgofili e al Museo di Santo Stefano al Ponte. Seguirono anni di restauri minuziosi,
mentre l’Italia prendeva coscienza della capacità della Mafia di colpire persino il cuore
culturale della nazione.
Nel frattempo, a Catania, la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta furono segnati
da un inferno parallelo: i clan rivali, Santapaola, Cappello, Cursoti, Laudani, scatenarono
una spirale di omicidi che arrivò a condizionare persino gli equilibri palermitani. Luoghi
di vita quotidiana si trasformarono in teatri di sangue: distributori lungo la Palermo–
Catania, barberie a Canalicchio, una macelleria in via Ferro Fabiani, persino il cimitero.
L’elenco delle vittime fu implacabile: Nello Colombrita nel 1989; “Nino” Pace, giustiziato
dal barbiere nel 1990; Angelo Barbera, capo dei Cursoti, nel 1991; fino agli omicidi del
1992 di Alfio Amato e Rosario Piacente. Anche innocenti furono colpiti: Maurizio
Colombrita fu assassinato mentre portava fiori sulla tomba del fratello. Quelle violenze
lasciarono ferite profonde, ancora oggi ricordate in tribunali, articoli di giornale e
cerimonie familiari.
L’operazione che portò alla cattura di Riina nel 1993 fu guidata da “Capitano Ultimo”,
nome di battaglia di Sergio De Caprio, allora ufficiale del ROS dei Carabinieri. Uscito
dall’Accademia militare Nunziatella, aveva prestato servizio a Bagheria e a Milano prima
di fondare l’unità sotto copertura “Crimor,” inviata a Palermo alla fine del 1992.
Quel trionfo, tuttavia, si trasformò presto in polemica. De Caprio e il generale Mario Mori
furono accusati di aver gestito in modo irregolare le indagini che avrebbero potuto
portare al covo di Riina; nel 2006 entrambi furono assolti con formula piena (“il fatto non
costituisce reato”). Negli anni successivi De Caprio ha servito in reparti ambientali e nei
servizi di intelligence, per poi fondare un’associazione a sostegno delle comunità più
vulnerabili. La sua figura è rimasta sospesa tra servizio decorato, controversie e impegno
politico, a dimostrazione di come la lotta alla Mafia si intrecci costantemente con le più
ampie vicende italiane di giustizia, potere e società.
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Redatto da Caterina Di Liberto – Head, Italian Organized Crime Division 2025/2026


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